Negli ultimi giorni molti quotidiani hanno parlato della vicenda che vede protagonista la pallavolista Lara Lugli.
In realtà la vicenda risale al 2019, ma è tornata alla ribalta ora dopo che la giocatrice di pallavolo ha pubblicato un post facebook a riguardo in occasione della festa della donna.
Ma cosa è successo?
Nel mese di marzo del 2019 la pallavolista comunicava al proprio club di essere incinta e, non potendo più proseguire la stagione il contratto veniva risolto.
La vicenda prosegue: la ex squadra della Lugli si rifiuta di corrispondere l’ultimo stipendio all’atleta e quest’ultima chiede dunque al giudice di pace di ordinare alla squadra di corrispondere le ultime spettande.
La squadra non solo si oppone alla richiesta ma formula una domanda di risarcimento dei danni nei confronti della pallavolista “colpevole” di essere rimasta incinta, di aver pregiudicato l’esito della stagione pallavolistica e di aver allontanato gli sponsor.
Secondo la società la lugli, ormai 39enne, e quindi non più in “età da marito” avrebbe dovuto informare la società della propria intenzione di diventare madre.
La Lugli afferma di aver fatto emergere la vicenda per battersi per la sua categoria, quella delle atlete di squadre dilettantiste, che vivono nel dilemma tra carriera sportiva e maternità. «Non è un tema sul quale si può passare sopra ed essere indifferenti. Non tanto per me, quanto per le tante ragazze che in queste condizioni spesso rinunciano a reagire», queste le parole della pallavolista.
La vicenda sta indignando il Paese, “com'è possibile che nel 2021 ci sia ancora la possibilità di interrompere legalmente un contratto di lavoro perché la diretta interessata è incinta? E come si può arrivare al punto di citarla per danni per "non aver reso nota la sua volontà di diventare madre".
Giuridicamente il ragionamento non fa una piega: si è trattato di una risoluzione per impossibilità sopravvenuta: la gravidanza della pallavolista le rendeva impossibile adempiere al contratto continuando a giocare e ad allenarsi, comportanto la risoluzione dello stesso.
Tuttavia l’ingiustizia sostanziale del risolvere un contratto e di conseguenza perdere un lavoro perchè si aspetta un bambino è evidente.
In realtà in Italia vi è una normativa volta a tutelare la maternità che, bisogna ammetterlo, rispetto al resto dell’Europa è piuttosto tutelante.
Le lavoratrici subordinate e parasubordinate hanno infatti diritto al c.d. congedo di maternità: si tratta di un periodo, flessibile, di astensione obbligatoria dal lavoro per un totale di 5 mesi. I due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi dopo il parto oppure, previo parare medico obbligatorio preventivo, un mese precedente al parto e 4 mesi successivi, previo parere medico preventivo oppure 5 mesi successivi al parto, qualora il medico specialista e il medico competente sulla salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante.
Per il periodo del congedo di maternità è prevista un’indennità giornaliera pari all’80%.
La legge prevede inoltre il divieto per il datore di lavoro di licenziare una lavoratrice durante la gravidanza né durante le 16 settimane che seguono il parto.
Ma queste leggi non si applicano al contratto di Lara Lugli perchè, pur essendo di fatto lo sport il suo lavoro, non era una atleta professionista, ma dilettante, e di conseguenza non dipendente ma lavoratrice autonoma. In Italia praticamente tutti gli sportivi sono dilettanti, tranne calciatori, cestisti, ciclisti, pugili e coloro che praticano golf e motociclismo
La vicenda si connota ancor più di gravità pensando lo stesso trattamento può essere riservato a tutte le lavoratrici autonome che vedono decisamente calare i propri diritti di future madri.
Se legislativamente l’Italia non sembra arretrata in confronto agli altri Paesi, lo è sicuramente a livello di cultura e mentalità. Conciliare carriera e maternità in Italia è quantomai difficile sia per la mancanza delle strutture di supporto alla maternità come asili nido e scuole materne sia per le discriminazioni subite.
Il desiderare una famiglia è spesso considerato un ostacolo alla carriera e molte donne si trovano costrette a scegliere se assecondare il proprio desiderio di maternità e buttare all’aria anni di studio e gavetta oppure scegliere la carriera e rinunciare il proprio desiderio di diventare mamme, per lo meno mamme giovani.
Sicuramente in Italia c’è ancora molta strada da fare per far sì che le donne, ma anche i padri, possano iniziare il progetto di una famiglia senza dover rinunciare a nulla e sentendosi tutelati e rispettati pienamente.
